Teatro e immagini del Settecento italiano (1954)

Recensione a Riccardo Bacchelli e Roberto Longhi, Teatro e immagini del Settecento italiano (Torino, Edizioni Radio Italiana, 1953), «La Rassegna della letteratura italiana», a. 58°, serie VII, n. 4, Genova, ottobre-dicembre, pp. 601-606, poi in W. Binni, Classicismo e Neoclassicismo nella letteratura del Settecento cit.

TEATRO E IMMAGINI DEL SETTECENTO ITALIANO

Questo volume[1], pubblicato con grande eleganza tipografica per iniziativa della radiotelevisione italiana «per contribuire alla diffusione della cultura teatrale del Settecento italiano» (a cura di Marziano Bernardi), consta di un saggio di Riccardo Bacchelli, Vocazione teatrale del Settecento italiano e di uno di Roberto Longhi, Pittura e teatro nel Settecento italiano che piú direttamente si riferisce alle 57 bellissime tavole (di cui nove a colori) scelte ad offrire una suggestiva antologia della pittura settecentesca nella sua tematica piú congeniale alla vita teatrale: da scenari dei Bibiena e dello Juvarra a quadri scenografici di G.B. Tiepolo, a pitture di ambiente familiare e di società di Pietro Longhi e del Traversi, ai Pulcinella del Magnasco e di G.D. Tiepolo.

Si poteva forse pensare che la scelta comprendesse anche tavole atte a illustrare le suggestioni scenografiche della pittura delle rovine, degli sfondi e del vedutismo campestre e cittadino o, ad esempio, delle incisioni del Piazzetta della Gerusalemme che confortano il gusto eroico-amoroso di tanti melodrammi settecenteschi.

Ma i limiti della scelta sono dettati soprattutto dalle linee e dai centri di interesse del saggio del Longhi, che ha composto l’antologia alla luce del suo discorso accentrato prevalentemente intorno al rapporto Goldoni-Pietro Longhi e Barone di Liveri-Traversi, e cioè intorno ad una piú concreta esemplificazione dell’incontro, della radicale unità ispirativa, della reciproca illuminazione di immagini pittoriche e espressioni teatrali in mondi poetici individuati, in tecniche rappresentative precise, piuttosto che in una larga e piú generica rievocazione di atmosfera generale, di gusto del secolo, e piú volto ad una attenzione alla scena animata dai personaggi che non alla scenografia e agli sfondi. Ché anzi il caso delle semplici e ovvie interferenze nel campo della scenografia è dichiaratamente scartato (e consegnato semmai alla documentazione essenziale di alcuni disegni dei Bibiena e dello Juvarra) a favore di una impegnativa illustrazione dei rapporti fra teatro e pittura settecenteschi nel comune carattere di una attenzione alla realtà quotidiana la cui documentazione è favorita dalla presenza di esempi illustri delle due arti «parlanti un medesimo linguaggio, e meravigliosamente, addirittura negli stessi giorni».

Il Longhi è naturalmente consapevole dei rischi di tali equivalenze fra due forme d’arte basate sulla coincidenza delle date (si pensi alle discussioni sulla illustrazione del Furioso einaudiano con quadri della pittura ferrarese, per non parlare di certi vecchi paragoni nati soprattutto all’insegna dell’estetismo e bisognosi comunque di verifiche nuove e peculiari sulle comuni radici di gusto e di poetica di precisi ambienti culturali e di effettivi scambi di suggerimenti fra pittori e poeti), ma egli pensa che, nella coscienza di un rischio calcolato e nello speciale caso della letteratura teatrale, e particolarmente di quella settecentesca, questo raffronto sia lecito ed utile in quanto esso permette una documentazione visiva di atteggiamenti, impostazioni di personaggi sulla scena, di costruzione della scena, una volta ammessa la comune origine, in determinati casi, di procedimenti tecnici e della poetica rappresentazione di una realtà umana e sociale sostanzialmente identica.

Tale appare al Longhi il caso del rapporto fra Goldoni e Pietro Longhi, la cui congenialità è appoggiata alla somiglianza dei temi trattati, alla complementarità di battute e titoli goldoniani rispetto a quadri longhiani sentiti a loro volta come didascalia evidente dell’azione goldoniana, della mimica e dell’atteggiamento scenico dei personaggi goldoniani. E tale gli appare – a parte le pagine piú marginali dedicate a rilevare l’intento di salvezza e glorificazione della vitalità delle maschere e degli umori piú vivi della commedia dell’arte nei quadri pulcinelleschi di un Magnasco o di Giandomenico Tiepolo – quello del binomio napoletano del commediografo Barone marchese di Liveri e del pittore Traversi, il pittore che fu rivelato proprio dal Longhi in un articolo del ’27 in «Vita artistica» e il cui patrimonio artistico fu da lui ricostituito con una serie di attribuzioni che è completata in questo volume con l’inedito Ballo in famiglia e con la rivendicazione di paternità della Seduzione.

Raffronto quest’ultimo tanto piú suggestivo e nuovo in quanto le pitture del Traversi verrebbero a costituire una documentazione – basata sulla comune poetica e tecnica dei due artisti – delle caratteristiche sceniche di un commediografo molto pregiato nel ricco ambiente teatrale napoletano e sin nel piú vasto ambito nazionale, per le sue qualità di regista, di uomo di teatro «creatore di infinite e forse modernissime anticipazioni sceniche», sicché (aggiungiamo noi) lo stesso Goldoni volle imitarlo nel Filosofo inglese con la costruzione di scene multiple e di soluzioni spettacolari atte a far muovere e recitare contemporaneamente diversi gruppi di personaggi (anche se poi il Goldoni fu scontento di questo tentativo alieno dal suo gusto tanto piú sobrio).

Già da questo breve riassunto, che perde inevitabilmente la ricchezza di particolari osservazioni penetranti e sollecitanti del discorso del Longhi, si può notare come il critico abbia impostato il suo saggio in una direzione originale e capace di stimolare lo studioso del teatro goldoniano o delle commedie napoletane ad una precisa attenzione ai loro valori teatrali e, particolarmente, a quella migliore storicizzazione della regia e scenografia goldoniana che eviti l’appiattimento veristico di tradizione ottocentesca e gli arbitrî vari impliciti nelle moderne esperienze di ritmo e balletto, di teatro puro di derivazione russa o reinhardtiana significativamente applicate a commedie piú marginali piuttosto che a quei capolavori in cui il gusto e la poesia goldoniana sono maturi e consonanti con la piena civiltà settecentesca, con lo speciale rapporto di simpatia poetica per la realtà quotidiana e di grazia comica che troverebbe appunto nei quadri del Longhi il suo equivalente, fissato nella evidenza e fermezza della rappresentazione pittorica.

Indubbiamente queste pagine del Longhi (a parte le originali illustrazioni critiche delle tavole di Pietro Longhi e del Traversi, cosí utili a precisare uno degli intenti del volume: la vocazione teatrale, l’animazione di movimento di una pittura sollecitata dal generale gusto settecentesco del teatro) rappresentano un vivacissimo contributo di suggerimenti e di inviti per i registi e gli studiosi del teatro settecentesco, specie per quel che riguarda l’impostazione dei personaggi goldoniani sulla scena, la misura della loro mimica, la radice di questa in un sentimento del tempo quotidiano, nell’esercizio delle solite azioni della giornata – fra monotonia e freschezza vitale –, il loro muoversi in uno spazio concreto e storicamente determinato, indicato dai quadri longhiani anche nel loro particolare suggerimento di una scena angolata e asimmetrica.

Non si può tuttavia negare che, mentre il gioco sottile e intelligentissimo della precisazione di battute goldoniane in pittoriche situazioni longhiane e dello svolgimento di figure e impostazioni longhiane in movimento goldoniano, per quanto cosí accorto e suggestivo (e appoggiato su di una conoscenza di tutta la produzione goldoniana davvero apprezzabile in questo originalissimo critico d’arte di fronte alla lettura antologica piú solita fra i non specialisti), sfiora inevitabilmente a volte il rischio di un geniale ed alto esercizio letterario (del resto molto adatto all’impostazione del volume, che rifugge evidentemente da un tipo d’argomentazione accademica), esso è sempre limitato nella sua validità piú precisa non solo naturalmente dalle differenze delle due arti (il movimento del teatro e della parola e la fermezza della pittura, sicché sempre i quadri longhiani sembrano suggerire l’entrata in scena e l’impostazione dei personaggi goldoniani piuttosto che il loro movimento e lo svolgimento della loro personalità), ma soprattutto dal grado di approssimazione della somiglianza dei due artisti, del loro mondo umano e poetico, della loro poetica, da cui deriva il preciso significato dei loro procedimenti tecnici ed espressivi.

Certo il Longhi si rende ben conto della esistenza di differenze nei due artisti rilevate da lui nel loro rapporto sostanzialmente giusto e giustificato con grande finezza e con molta novità rispetto ai vecchi svolgimenti di questo tema tradizionale (il che viene a confermare la sostanziale ragionevolezza della illustrazione delle commedie goldoniane con riproduzioni longhiane nella recente antologia einaudiana curata da Vittorini), ma ci sembra anche che, nella dosatura di somiglianze e differenze, queste ultime debbano essere ancor piú precisate e che pur nella vicinanza dei temi trattati dalla loro congenialità ad una «saggia mediocrità umana», del loro comune interesse per la realtà quotidiana contemporanea, nel Goldoni sia da accentuare ancor piú una tanto maggiore ricchezza di interessi umani, una sua piú forte e decisa simpatia poetica per la vita degli uomini nei loro impegni e nei loro affetti, nel loro senso di valori nuovi di laboriosità, di onestà, di convivenza socievole che lega il Goldoni, in un rapporto complesso e originale, con il suo tempo attivo, con la mentalità illuministica che poté avvertire in lui non del tutto a torto un suo poeta, oggetto insieme delle significative antipatie dei conservatori per quella sua attenzione e simpatia per il mondo borghese e popolare (e si parlò persino di «insubordinazione ai nobili») che, come il Longhi del resto ben avverte, mancano nel contemporaneo pittore, come piú debole è in questo quell’alacre fiducia nella vita degli uomini che dà un particolare significato del lieto fine diverso da una soluzione di indifferenza o di idillismo evasivo.

Sicché negli stessi procedimenti tecnici, nell’arte del Goldoni (e specie nella sua poesia piú matura delle grandi commedie veneziane del ’60-62) appare riflesso quel piú ricco movimento di affetti (che tende la convenzione e la misura, ad esempio, nel patetico-ironico tormento degli Innamorati), quel senso di simpatia poetica per una vitalità in movimento, per una saggia, ma autentica libertà di istinti e di passioni naturali, che danno un rilievo piú energico al ritmo poetico goldoniano, una luce poetica piú vibrante alle stesse azioni quotidiane, alla realtà rappresentata.

E se sarà da rifiutare un’interpretazione rudemente classista del Goldoni come riformatore convinto e combattivo (l’immagine ad esempio del critico sovietico Givelegov) e quella piuttosto impulsiva di Vittorini (il poeta della libertà e della vita umana libera da ogni mediazione sacerdotale e da ogni ipoteca trascendentale)[2], mi pare che vada piú considerata l’istintiva antipatia goldoniana per ogni offesa e menomazione alla ragione, al buon senso, alla dignità umana, viva anche entro i limiti del suo bonario spirito conciliativo, della sua prudenza che non cela però, anche quando cede a compromessi come quello del finale della Pamela, la sua ironia per la burbanza nobiliare (e quante caricature di nobili prepotenti e superbi nelle sue commedie e quanta simpatia per quei nobili che piú si avvicinano ai suoi valori di laboriosità e di «riputazione» non apparente: Il cavaliere di buon gusto, Il cavaliere e la donna, ecc.), la sua partecipazione affettuosa ad un mondo piú libero e attivo e moderno.

Se si può dunque dubitare (al di là delle stesse differenze avvertite dal critico) che l’equivalenza Goldoni-Longhi possa davvero esaurire la ricchezza del mondo goldoniano e permettere, nell’adeguazione dei due artisti, una ricostruzione intera delle caratteristiche teatrali goldoniane che da quel mondo umano e poetico derivano, indubbiamente utile e suggestiva rimane l’originale ripresa del vecchio confronto, nuovamente fondata sulla vicinanza dell’interesse dei due artisti contemporanei e conterranei per la realtà quotidiana e sulla vicinanza del loro gusto nitido ed evidente, realistico e poetico, animato ed ironico, e nuovamente sviluppata con rilievi tecnici penetranti, utili a suggerire soprattutto al regista impostazioni di personaggi e di scena, pur nella impresa sempre ardua della interpretazione del ritmo del Goldoni, del movimento scenico ed intimo delle sue commedie, e specie di quelle maggiori.

Il confronto Liveri-Traversi appare nel saggio longhiano ancor piú interessante per la sua assoluta novità e per la sua capacità di introdurre, attraverso le caratteristiche di un pittore cosí magistralmente descritto nella sua profonda forza di composizione scenica e di espressione realistica, e nel suo gusto cosí istintivo di quella realtà cui il teatro migliore del Settecento guardava, nelle condizioni di gusto del teatro comico napoletano, che andrebbe davvero minutamente studiato dopo la valutazione del Croce, sempre ripresa dagli specialisti con una sorta di rispetto poco critico che ha spesso loro proibito persino di risalire alla lettura diretta dei testi.

E certo può essere interessante con una maggiore sensibilità teatrale (che è poi quella che caratterizza insieme i saggi del Longhi e del Bacchelli) tornare a valutare l’opera del Liveri proprio in vista delle sue qualità di uomo di teatro, di regista e di scenografo, maturato a contatto con espressioni pittoriche suggestive come quella del Traversi e nella tradizione napoletana cosí attiva nella direzione della rappresentazione comica della realtà quotidiana e istintivamente sensibile (si pensi all’opera buffa) a valori teatrali di movimento e di gioia comica, di pittoresco, ritrovato nella vivacità degli intrecci, della mimica dello spettacolo.

Perduta ogni traccia diretta della regia del Liveri e dei suoi accorgimenti teatrali, l’opera del Traversi permetterebbe cosí, con la sua documentazione contemporanea e congeniale, il restauro, il recupero di quelle qualità perdute. Ipotesi suggestiva, anche se per la sua stessa natura ovviamente impossibile da verificarsi al di là dell’originale indicazione di una somiglianza di ambiente e tradizione napoletana, data la scarsità di elementi a nostra disposizione per quanto riguarda le effettive qualità del Liveri e le sue (del resto il Longhi pone un «forse» quanto mai opportuno) «infinite e forse modernissime anticipazioni sceniche».

A parte il valore mediocrissimo dei testi e l’indicazione che essi ci offrono di una ripresa di vecchi sviluppi delle commedie eroicomiche italo-spagnole, gli stessi alti elogi del Napoli-Signorelli (e si calcoli un certo campanilismo dello storico meridionale) fan pensare piú ad una particolare ricerca di grandiosità spettacolare, di movimento pittoresco e multicolore di folle e di gruppi (anche in gara con gli effetti spettacolari dell’epoca musicale), di «magnifici apparati scenici» che non ad un gusto piú intenso ed espressivo quale appare nelle pitture del Traversi (pur calcolando il suggerimento di quel «sospiro» fatto provare cinquanta volte dal Liveri ad un suo attore e la componente di una tradizione mimica e scenica napoletana): per non dire poi del fatto che questo uomo di teatro, nella sua tendenza a grossi effetti di spettacolo ancor legati a certa grandiosità di origine barocca, portava sulla scena, piú che vivi elementi della realtà popolare napoletana, folle di cavalieri, di cortigiani, sontuose scene storiche, e che la stessa ricerca di complicati procedimenti tecnici (scene multiple ecc.) potrebbe anche ricollegarsi a tecniche teatrali barocche piú che a geniali anticipazioni moderne.

Comunque anche questa ipotesi è fortemente stimolante, come tutto l’acuto saggio del Longhi, per una indagine sulla regia settecentesca, a cui il conforto delle immagini pittoriche può essere certamente utilissimo a superare i giudizi piú stanchi e letterari sul carattere puramente accademico di tanto teatro pregoldoniano (e si pensi a quanto ha scritto il Varese circa le esperienze teatrali del Riccoboni e della Balletti o circa la regia metastasiana).

Mentre il saggio del Longhi illustra la tesi centrale del volume (teatro e immagini) in un doppio esempio concreto, quello del Bacchelli mira alla descrizione di quella vocazione teatrale del Settecento italiano di cui le tavole dovrebbero fissare in maniera piú generale l’elemento «irrepetibile», e cioè soprattutto quei valori di atteggiamento e di movimento scenico, quel gusto istintivo di vivere teatralmente che, pur verificabile nei testi teatrali e in molte forme della letteratura settecentesca (ad esempio la rappresentazione del Giorno pariniano), sarebbe andato perduto con la morte di quella società e delle particolari condizioni della regia e della recitazione di quel tempo.

Nel discorso abbondante e sinuoso del Bacchelli (egli lo chiamerà addirittura «errabonda divagazione»), sollecitato da una particolare attenzione del letterato per la vita teatrale e i suoi legami con il tempo e la società, il tema ampio, e difficile nella sua apparente facilità (complicato anzi da una tradizione di luoghi comuni e di intuizioni viziate da inclinazioni estetistiche e da immagini abusate del Settecento italiano come epoca tutta di gioia teatrale, di melodia e di superficiale edonismo), si arricchisce di osservazioni sempre assai originali anche se difficilmente collegabili in un discorso serrato e in una visione compatta e storica del Settecento. Di cui forse il Bacchelli, proprio nel guardare a un duplice valore della vocazione teatrale come forza estetica espressa nel teatro e come monotonia di una finzione di un «vivere in maschera», di una convenzione che giunge ai limiti del tedio e della mania (nel suo incontro con il razionalismo ordinatore, con la illusione di una costruzione astratta della realtà: la Ferdinandopoli di Ferdinando di Borbone!), finisce per mortificare alquanto la piú profonda serietà, come avviene, ad esempio, per l’Arcadia per la quale egli accetta la rivalutazione crociana, senza però riuscire ad unificare quella impressione positiva con la constatazione della mascherata, della convenzione galante e pastorale che è in quella fase della nostra civiltà contrappesata non solo da Vico, ma dall’impegno critico speculativo, erudito di uomini come Gravina e Muratori e dalla poesia del Metastasio.

Me se del resto è pur vero che, specie guardando al Settecento fra le due grandi personalità di Vico e Alfieri (Bacchelli aggiungerebbe Galiani, alla cui potenza spirituale e alla cui amarezza forse concede una profondità superiore alla realtà), e proprio accentuando di quel secolo solo la vocazione teatrale con l’equivalenza di una vita teatrale, quell’epoca può apparire chiusa da limiti di mediocrità invalicabili, nel discorso di Bacchelli si ricuperano poi molte interessanti ed utili osservazioni sulla vita teatrale dei comici e autori italiani, sulla importanza del «librettismo» italiano a sostegno della musica di Mozart o Gluck, sul ripiegamento dei comici dell’arte da una posizione geniale e quasi eroica di «ribelli» a quella di un artigianato artistico, sulla assimilazione delle maschere nella commedia goldoniana, anche se, in questo caso, discutibile è il silenzio sulla commedia pregoldoniana e sul confluire in quella del Goldoni anche di esigenze letterarie e teatrali non tutte sterili ed accademiche.

E comunque meglio è forse cercare in questo scritto (spesso non privo di sforzo e di complicatezza) piú che una linea precisa, punti particolari di interesse, avvivati da esperienze e da ricordi personali che son poi quelli che aprono la via alle pagine piú gustose dello scrittore e alle sue impressioni piú efficaci su particolari e concreti momenti della letteratura teatrale settecentesca. Si cerchino cosí le pagine sul teatro delle marionette e sulla sua fine a Bologna sotto il fascismo (oltretutto con quella vivace e sofferta definizione del «dispotismo didattico» mussoliniano), o quelle sulla lettura del Metastasio nei mesi tristissimi dell’occupazione tedesca.

Ed ecco che qui, da una esperienza concreta e personale esce l’abbozzo di un giudizio sul Metastasio che è davvero notevole come testimonianza da parte di un geniale lettore moderno (e ancor piú notevole proprio perché procede da un’iniziale presa di contatto «alquanto scettica e sfiduciata») della vitalità e validità dell’opera metastasiana troppo depressa da limitazioni critiche che, insistendo pur giustamente sulle condizioni della poetica metastasiana, sul suo compromesso fantasia-ragione, sul cerchio limitato e chiuso in cui si attua, finiscono per precludersi la viva impressione bacchelliana secondo cui entro quel cerchio vibra «una nota discriminata e pura», «quella purezza di voce donata ed educata, spontanea e studiata, in cui è tanto d’arte quanto di natura», quella «melodia metastasiana che gli vien dalla natura e non soltanto dall’arte, che è poetica e non soltanto melodrammatica».

Sarà piú una impressione che un articolato giudizio, ma certo essa corrisponde a ciò che molti provano (e che si può giustificare criticamente) alla lettura del Metastasio piú maturo e, meglio che alla lettura, all’ascolto di una recita, efficacissima anche senza musica, specie di quei melodrammi come l’Olimpiade in cui l’accordo delle voci, la consonanza dei personaggi tesi alla loro mèta felice e turbati dalle vibrazioni squisite che in loro provoca l’avversità e l’ostacolo, il patetico intreccio dei sentimenti si sviluppano mirabilmente entro un disegno lucidissimo e a suo modo perfetto.

E allo stesso modo vanno ricordate le pagine sul Goldoni e l’accenno piú breve all’Alfieri. Per il primo, se piú discutibile è l’iniziale discorso su Goldoni «uomo soprattutto di buon senso» che, isolato, sembrerebbe ricondurre a certe condanne del petit bourgeois rassis et plein de bon sens sterilizzatore della commedia dell’arte (quella del Miclacevsky), questo stesso è in realtà poi diversamente inverato dalla descrizione della «simpatia» goldoniana per la vita che rappresenta, della «sua amorosa disposizione verso l’uomo», del suo «amor del simile e del prossimo, di un gusto e piacere della faccia umana, cosí pieni e cordiali e fertili, cosí a forza di alacrità e simpatia, cosí caritatevoli, che ne nasce la poesia, la musica di quella frugale e splendida meraviglia che è il dialogo goldoniano, la sua casta, gentile, gioiosa vitalità sovrabbondante e geniale»: che è, come nel caso del Metastasio, una viva e cordiale impressione della vitalità poetica e dell’umanità goldoniana, che potrà chiedere precisazioni e limitazioni (l’ironia ecc.) implicite nella migliore critica goldoniana, ma che è pure apprezzabile di fronte a certe eccessive riduzioni del valore umano e poetico di quel teatro, o a certe esaltazioni sofistiche ed estetizzanti, che finiscono per deformare il vero volto del Goldoni.

Ed anche per l’Alfieri, su cui il discorso è rapidissimo nella constatazione della estraneità del suo gusto ad ogni possibile equivalenza pittorica settecentesca e della sua potente novità tragica, piace almeno notare la rivendicazione – fatta anche questa in una forma di esperienza piú che di giudizio e che tuttavia può corrispondere al motivato giudizio di una parte della critica alfieriana – del profondo valore teatrale delle maggiori tragedie alfieriane, da rappresentare e non da leggere solamente: e ciò proprio perché – si può aggiungere – la scelta della «tragedia» da parte dell’Alfieri deriva non solo dall’adesione ad una pratica ed aspirazione del secolo (che è cosí caratteristica della letteratura settecentesca nelle sue aspirazioni a valori alti e profondi i quali chiedevano un nuovo animo e un’autentica ispirazione tragica a quella mancante e che pure vale a collegare la risposta alfieriana ad una richiesta sia pur velleitaria del secolo), ma da una profonda condizione del suo animo violentemente tragico e bisognoso di una struttura adatta alla sua visione tragica della vita, all’urto fra ideale e reale, al suo complesso e drammatico motivo poetico di lotta contro il limite e di disperata catastrofe nel sentimento tragico dal perpetuo risorgere del limite di fronte all’ansia della liberazione (il grande poeta del pessimistico «purtroppo» e dell’impetuosa tensione all’affermazione di un’assoluta infinita libertà).

Altrove, come abbiamo detto, il discorso del Bacchelli é piú involuto e sottile, e spesso impone al lettore una certa fatica nel seguirlo a dipanarlo, ma mentre anche altrove offre osservazioni acute e personali, nelle parti ricordate esso è ricco di impressioni derivate da una meditazione e da una esperienza personale che impongono particolare attenzione. Sí che, nel complesso, il volume supera il suo valore occasionale e, pur nei limiti segnati, rappresenta un contributo stimolante a quella indagine sul Settecento italiano che è uno dei temi piú ricchi e interessanti della nostra recente storiografia letteraria.


1 Riccardo Bacchelli e Roberto Longhi, Teatro e immagini del Settecento italiano, Torino, Edizioni Radio Italiana, 1953, pp. 211.

2 Si noti però ch,e se il Vittorini sbaglia attribuendo la assenza di sacerdoti nelle commedie goldoniane ad un volontario rifiuto della mediazione sacerdotale nella vita degli uomini, quell’assenza, dovuta al divieto tassativo della censura di portare sulla scena i ministri della religione, corrisponde al rimpianto, ben documentato da una lettera da Roma del 2 aprile del 1759, di non poter servirsi di un materiale comico cosí abbondante e alla netta posizione di satira e di ironia dei Mémoires, che non mancano mai di porre in ridicolo lo zelo interessato del clero, la superstizione e la fede nei miracoli, la filosofia tomistica e il misticismo.